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“MANUALE DI SOPRAVVIVENZA ALL’ETÀ ADULTA” - INTERVISTA A NICOLÒ TARGHETTA - SECONDA PARTE

Nicolò Targhetta è uno scrittore e un blogger. Nel 2018 ha aperto la pagina Facebook Non è successo niente” con l’intento di pubblicare una storia al giorno. Ha pubblicato i libri: “Non è successo niente” (2019), Lei (2020), Dialoghi impossibili (2020), Commissario elfo: piove per esigenze di trama (2022), Manuale di sopravvivenza all’età adulta (2023), I cartoni animati 80’s e 90’s (2023). 
Dal 2021 collabora con l’Ordine degli Psicologi del Veneto, scrivendo per loro un racconto inedito al mese.  
Non è un video maker! 

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IL MONDO DEL LAVORO

Vogliamo parlare del mondo del lavoro? La tua descrizione è terrorizzante! Ed è il terrore di tanti, perché comunque tantissimi giovani che vedo in studio, tantissimi giovani adulti (di età tra i 20 e i 30 anni) vivono il tema del lavoro come terrorizzante. 

Beh, ci credo, nelle condizioni in cui siamo è il minimo. A questo proposito, c’è questo aspetto che per me è terrificante: io prima di scrivere ho fatto per tanti anni il videomaker, e mi fanno molto ridere due cose. Innanzitutto, è stata molto importante come esperienza, perché per cinque anni ho fatto un lavoro che odiavo profondamente e quando sei dentro a un lavoro che odi – perdonatemi l’analogia forse un po’ leggera rispetto al tema – è come star dentro ad una relazione tossica: tu non te ne rendi conto da dentro, ti autoconvinci che le cose cambieranno, che questo lavoro prima o poi ti darà delle soddisfazioni, che sei tu magari che non sei adatto a questo contesto; e invece no! Invece ad un certo punto bisogna troncare per la sanità mentale tua e di chi ti circonda. E la seconda cosa che mi fa ridere è che, avendo fatto questo lavoro, ogni volta che faccio una presentazione viene fuori: “Nicolò Targhetta videomaker, che sta scrivendo...”. Mi fa pensare che dev’esserci per forza un lavoro dietro, non puoi scrivere e basta perché altrimenti sei un fenomeno da baraccone. E quindi l’idea che ti debbano sempre legittimare con un lavoro alle spalle, è un classico: “Va beh, ma di lavoro cosa fai?” 

Te lo chiedono?

Tutti, e non puoi rispondergli: “No, scrivo”.

Non puoi?

Sì, glielo dici e questi ti dicono: “ah, e riesci a viverci?” Gli rispondo: “sì, male ma sì”. 

E quindi la grande paura è quella. Poi io faccio parte di quella generazione a cui era stato detto: “Guarda puoi fare tutto, puoi essere tutto...”, e poi, subito dopo la laurea: “No, guarda, ci siamo sbagliati, forse è il caso che ridimensioni – e un bel po’ – le tue aspettative”. 

Io e alcuni colleghi stiamo scrivendo un libro dedicato ai giovani adulti, nel quale abbiamo raccolto in un capitolo le loro testimonianze su diversi temi che li riguardano, ed effettivamente il tema del lavoro è emerso come particolarmente problematico.  È strettamente intrecciato a tanti altri aspetti della vita, come il tempo libero, le relazioni, l’amore, che spesso vengono fagocitati dal lavoro. Il pensiero di fondo emerso dalle interviste è che o tu lavori, o tu vivi e che il lavoro diventa la tua vita. Per molte persone è così, credo però non si debba mai smettere di interrogarsi su quale possa essere il limite tra quello che è una prospettiva scelta o una posizione in cui si scivola, senza quasi accorgersi. Credo sia molto importante darsi dei limiti o provare a darseli per preservare le componenti della propria vita. Tu che ne pensi? 

Io ho un’amica che mi aveva scioccato, perché lei subito dopo la laurea ha trovato lavoro all’interno di una grossa società, ha fatto carriera, si è adattata bene a tutte le dinamiche da ufficio ed è riuscita. Adesso è manager, ha successo a livello lavorativo. Poi, c’era stato il lockdown, per cui tutti in smart-working. Ci siamo rivisti dopo il lockdown e lei mi ha detto: “Ho capito due cose: intanto che voglio licenziarmi” e poi mi ha detto: “ho capito che voglio licenziarmi, perché un giorno ero in smart-working e sono andata a fare una passeggiata e mi sono resa conto che erano cinque anni che non ne facevo una.” Perché c’è questo mefistofelico patto per cui: “Va bene: vuoi farti la passeggiata? La notte stai sveglio perché non sai come pagare l’affitto il mese prossimo. Vuoi esser tranquillo con l’affitto? Va bene: la sveglia è alle sei meno un quarto perché devi andare al lavoro”. Non può essere! Le opzioni non possono essere: o ti rovini la vita, o ti rovini la vita. Ci sarà una terza via!

Ho fiducia che ci sia una terza via, si tratta piano piano di costruirsi ciascuno la propria.

Poi, per carità, non voglio farmi alfiere delle esigenze di una generazione. Però la mia esperienza e quella dei miei amici coetanei è quella che il grande mostro è sempre stato il mondo del lavoro. Il drago che anche quando lo sconfiggi non ti lascia tutta quella gloria che pensavi.

La concezione del lavoro nel tempo è molto cambiata. Le professioni sicure di una volta non esistono più, oggi forse c’è più l’idea di doversi “fare strada” più di un tempo, una strada difficile da perseguire? 

Io lo vedo con mia madre. Mia madre ogni tanto mi fa molto ridere perché ha una mentalità molto diversa dalla mia da questo punto di vista. Ogni tanto mi telefona e mi dice: “Riesci a mettere via qualcosa per la pensione?”. E io rido! Io scoppio a ridere perché dico: “La pensione? Ma che cosa dici? Ma ti sembra che io andrò in pensione? Ma io morirò stroncato su una scrivania mentre scrivo una sceneggiatura per un film dei Vanzina! Sono sicuro che finirà così. Ma mi fa ridere perché c’è quella mentalità. Mia madre è entrata di ruolo a 18 anni, faceva l’insegnante, ha fatto 40 anni di insegnamento ed è andata in pensione. Fine. Non si è mai posta il problema che il lavoro potesse non esserci. Ed era un lavoro che le piaceva. 

I giovani di oggi si devono confrontare con nuove prospettive lavorative e differenti possibilità di realizzarsi. Credo ci sia molta preoccupazione nel misurarsi con tutto ciò. E trovare una fattibilità del proprio progetto lavorativo per il quale le 8 ore di lavoro di un tempo, non sono le 8 ore di lavoro di oggi. 

Tu, per esempio, fai un lavoro che mi immagino funzioni anche da casa? 

Solo da casa praticamente. A parte quest’esperienza scolastica di cui ti raccontavo. 

E come ti trovi? Non ti senti un po’ solo a volte? 

C’è una frase, che è una delle mie preferite – è di Joseph Conrad - e dice: “come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”, credo faccia capire che quando fai quello che faccio io, non stacchi mai. Io sto sempre pensando a cosa scrivere, a cosa scriverò. E quando non sto pensando a cosa scrivere sono nel panico, perché non mi vengono idee. Io non stacco mai. Ho avuto amici e fidanzate molto pazienti perché mentre mi stavano facendo discorsi molto importanti sulla nostra relazione, io dicevo: “Scusa un attimo perché questa cosa me la devo segnare”. Che schifezza! Me lo dico da solo. Però purtroppo o per fortuna, una parte della mia testa è sempre lì. E l’ho scelto. Sono io che mi punto la pistola alla tempia da solo. Ci sono i pro e i contro e ognuno sceglie secondo la propria natura. 

 

SEMPRE ATTIVI, SEMPRE IN COMPETIZIONE

Devi essere molto sotto pressione nel convivere con questa urgenza sempre attiva, non tutti riescono a gestirla. Tanti ragazzi che vedo in studio arrivano a un punto di sovraccaricamento tale che poi vanno in cortocircuito. E non riescono più a fare niente.

Se io la mattina accendo il cellulare e vedo che un mio amico sta facendo uno spettacolo teatrale, che un altro mio amico è in tournée, che un altro ha pubblicato un libro, che un altro ancora ha annunciato che il suo esce per il “Salone” ed io non ho preparato niente; e io sto ancora cercando di far colazione, e mi arrivano tutte queste cose... è ovvio che se nel pomeriggio non faccio qualcosa, mi butto dalla finestra! Perché è come avere un televisore sempre puntato su una corsa, su una gara, e tu partecipi. E vedi tutti che sono avanti. E tu sei a casa a guardarla dal televisore. E dici: “No! Devo mettermi in tuta e lanciarmi fuori e mettermi a correre dietro agli altri!”. Ed è allucinante perché alcune di queste persone lo sanno e non rallentano mai, e se la godono, riescono a godersi il fatto di andare a quel ritmo.  Per lo meno danno quell’impressione, poi, ognuno, nella sua casa, nella sua comfort zone se la gestisce in altro modo. Magari sono tutti in super-burnout e non lo sai. Però danno l’impressione, con la falcata slanciata, di essere lì a farcela.

Essere sempre attivi, performare continuamente ed essere visti dagli altri nel farlo, non credi possano diventare esse stesse delle ossessioni?  E poi è come se ti portasse quasi via dalla questione principale. Cioè, sei talmente lanciato a performare in qualche modo, che si perde di vista la cosa che stai facendo, il punto di partenza, la spinta iniziale...

Il problema però non è di queste persone, secondo me. Il problema è la pressione sociale che ti impone questi ritmi e queste modalità. Ad esempio, c’è l’aspettativa che le persone rimangano se stesse sempre. Quindi tu non puoi essere contraddittorio, non puoi essere ipocrita. Per me quelli sono grandissimi pregi in una persona.

Sono grandissimi pregi? Spiegami meglio.

Sì, l’ipocrisia, l’essere profondamente contraddittori, dire una cosa e poi farne un’altra o un giorno avere un modo di porsi e un giorno un altro. Perché non è possibile essere sempre assolutamente coerente. 

Credo che ognuno abbia le sue ipocrisie e che nasconderlo sia più ipocrita che tirarle fuori.

Posta in questi termini mi sembra tu stia parlando di essere più liberi di mostrarsi con le proprie contraddizioni, per come si è. Sveliamo i trucchi.

Sì! Sveliamo un po’ i trucchi! Invece la gente non vuole il trucco. La gente quando va a vedersi il mago vuole vedere la cosa che scompare e riappare. Non vuole sapere come.  

Per dirti a che livello di psicosi sono con queste cose: io ho sofferto per tantissimi anni di attacchi di panico. Ne ho sofferto per tre anni, poi si sono fermati e infine sono tornati furiosamente durante il periodo del lockdown, nel 2020-2021, per via di Facebook.

Perché?

È successo perché un giorno, era sotto Natale, era quel Natale sotto lockdown in cui eravamo tutti chiusi, c’erano degli slogan tipo: “Salviamo il Natale” e io, ovviamente, come tutti, ero a casa. E mi capita di vedere un post su Facebook di un famosissimo influencer, che aveva scritto una cosa molto condivisibile. Lui diceva: “Ragazzi, se dovete andare dai parenti a Natale controllatevi, andate a fare il tampone, eccetera”, responsabilizzava. E diceva: “Io so di cosa parlo perché, purtroppo mio papà è morto per via del Covid”. Aveva avuto questo profondissimo lutto in famiglia, per cui diceva di stare attenti e fin là ci stava, per carità. E poi c’era una coda al post che recitava: “Tanti in questo periodo mi chiedono se possono darmi una mano in questo momento difficile, non preoccupatevi, se volete vi lascio la mia wishlist Amazon”. E allora ho detto: “Non posso averlo letto davvero! Cosa ci sarà in questa wishlist? Ci saranno delle mascherine! Ci saranno delle donazioni!”. E invece c’è il cofanetto di Indiana Jones, il lego da 6000 pezzi... Era un post da 30000 “mi piace”, cuori, like... Io mi sono sentito fuori dal mondo. Vedo che ha messo un cuore una mia amica che io non sentivo da anni. E le ho telefonato. Dopo tre anni, che non ci sentivamo, l’ho chiamata. Lei mi fa: “Nicolò! Ma che bello che ci sentiamo!”. Ed io: “No, no, aspetta, ti devo chiedere una cosa: sono qui davanti a Facebook e c’è questo post. Io ho bisogno di capire perché hai messo un cuore a questo post”. Questa mia amica poteva chiamare la polizia postale, e invece è stata anche molto comprensiva rispetto al mio squilibrio e ha detto: “Ma no, io l’ho messo per la prima parte del post!”. E una persona sana di mente, a questo punto, rinuncia, dice: “Va bene, grazie, scusa se ti ho disturbata.” E invece io ho continuato e le ho detto: “No ma c’è tutto il post! Non puoi prendere una parte!”. E lei fortunatamente non mi ha denunciato, però diciamo che non ci siamo più sentiti per i successivi tre anni.

Quando ho riattaccato il telefono ho avuto un attacco di panico, che è durato tre ore, ho sudato tre camicie, è stata una cosa inquietante. Perché mi sono reso conto che sono all’interno di un gioco che non condivido, che non mi piace. E come ne esco? Boh. Mi sembrava di aver scoperto che nel mio ambiente tutti sono dei cannibali. Tutti si ritrovano una sera e mangiano carne umana e tu dici: “Come posso condividere questa prospettiva? Stando dentro?  Partecipo? Non partecipo? In che modo?”. Ti fai mille paranoie. Prima io scrivevo semplicemente scemenze, da quel momento in poi scrivere scemenze è diventato molto più difficile. Magari avere diecimila, centomila, un milione di follower è una responsabilità che noi non stiamo prendendo nel modo giusto. Noi tendiamo a dire: “Ma sì, va beh, sono influencer” ci scherziamo sopra.  

 

NON SEI QUELLO CHE FAI!

Bisogna stare attenti a non cannibalizzare e a non essere cannibalizzati dagli altri. Insomma, mangiare bene e far mangiare bene con quello che si cucina, si scrive, per gli altri.

Sì, a un certo punto non ti rendi più conto di certi confini, di certi limiti, perché sei assuefatto, sei drogato di endorfine, di like, di gente che ti dice: “sei bravissimo”, “sei un genio” e ti convinci. Ecco, alla base del “non prendere la vita sul serio” del mio libro c’è anche un aspetto molto importante. Io ci ho messo un po’ a capirlo, ma credo sia fondamentale in qualsiasi percorso artistico o comunque social: tu non sei quello che fai. Quello che fai può essere bellissimo, questo non assolve te dall’essere una “brutta persona” comunque. Le cose che fai sono bellissime, ma tu non sei bellissimo, tu sei un casino, come tutti. E tenere questa distanza è fondamentale, sia nel bene che nel male. Se quello che fai è una schifezza, tu non sei una schifezza necessariamente. So che è banale come discorso, però credo che tanta gente non lo tiene presente. Tanta gente, come dicevi tu, si fa assorbire da quello che fa e crede di essere quello che fa. Crede di essere quel post da diecimila like, quella foto condivisa dappertutto, quel concetto, quel libro, quel film, e invece no! Tu sei quello che sei, magari un disastro imperfetto.

Sembra rassicurante...

È rassicurante!

Hai l’opportunità, qualche volta, di fare una cosa meravigliosa, indipendentemente da quanto tu faccia schifo! E poi c’è la gente che si fa le paranoie perché “Oh mio Dio! Non dobbiamo più guardare Picasso perché Picasso ha fatto suicidare due mogli ed era una delle persone più orribili di tutto l’universo.” Sì, è vero! È questo il discorso! Però ha fatto delle cose meravigliose. Poi ci sono delle persone meravigliose, che hanno fatto delle cose orribili. Cerchiamo di separare. Lì ti salvi. 

 

IL PESO DELLE ASPETTATIVE

Mi sembra che tu stia parlando delle aspettative anche interne. Perché ci sono le aspettative esterne, degli altri, e poi anche le tue.

Sì. Beh, le aspettative interne si nutrono delle aspettative esterne.

Sì, però diciamo che è complicato quando diventano uguali.

Sì, esattamente, quando le aspettative su te stesso si modellano sulle aspettative degli altri su di te.

Credo che il tuo libro sia molto utile per tenere questi due piani distinti.  Rimanere un po’ più sganciati dalle aspettative esterne, che possono diventare una trappola.

Per ricordarsi che fallire, che sbagliare, che non essere adatti, non essere all’altezza è possibile, è normale, è accettabile.

Infatti, dici: “Con questo libro il suo autore […]  vuole solo ricordarvi che non c’è niente di male a esistere anche in assenza di sentieri”, è un bellissimo concetto.

Sì, esatto, sottraiamoci alla pressione.

Io anni fa avevo scritto un racconto che non ho mai pubblicato da nessuna parte (perché era brutto), però il concetto mi risuona molto. Il protagonista viveva in un futuro in cui avevano inventato una pillolina che prendevi e ti permetteva di eccellere in tutto. In particolare, la tua ambizione diventava reale: avevi preso due lezioni di pianoforte? Diventavi Chopin. Eri abbastanza carismatico? Diventavi Obama. E il protagonista va in ospedale, in un ospedale deserto, perché nessuno si ammala più, quindi non ci sono più malati. L’ospedale è spettrale, stanno trasmettendo una partita di calcio a rallenty, perché sono tutti troppo veloci e ci sono goal su goal. Lui va a trovare la mamma, che sta morendo, perché è contro questa pillola e non ha mai voluto prenderla. Anche lui è contro. Infatti, ha il raffreddore, quindi tutti lo guadano come se fosse disgustoso. Arrivano i suoi fratelli: suo fratello è un attore di cinema quotatissimo; sua sorella ha scritto decine e decine di libri, uno più bello dell’altro. E nel mondo dei libri, i libri che ora valgono e vengono cercati nel mercato nero sono quelli con degli errori, quelli con “un altra” e “qual’ è” con l’apostrofo.

Quelli che mantengono una certa umanità.

Quelli brutti! E dopo che il protagonista si accommiata dalla madre, incontra per strada una ragazza che assomiglia a tutte le ragazze che lui abbia mai amato contemporaneamente. E mentre la ragazza passa, le starnutisce addosso. E questo discorso è ripreso da una frase del ‘Manuale’ che dice che è bella – o, più che altro, strana - l’idea di un mondo in cui devi tirare la cloche verso il basso per riuscire ad essere diverso, ad avere un’identità.

Ad essere se stessi. 

 

IL FUTURO DELL’ARTE NELL’ERA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Questo tendere all’essere perfetti, senza fragilità, mi fa pensare agli ultimi sviluppi tecnologici, a Chat-GPT, a Dall-e, che hanno reso estremamente fruibile e potenzialmente integrata nelle nostre vite l’intelligenza artificiale, come strumento per essere più bravi, più creativi, più veloci.

Mi viene in mente la cucina. Il piatto povero del contadino di cinquanta anni fa, che diventa il piatto gourmet del ristorante stellato. Il tortellino fatto con la pasta tirata, come una volta, diventa prezioso. Una volta era una cosa che si mangiava perché quello c’era, ed era un piatto povero. Secondo me la stessa cosa potrebbe succedere per tutto quello che è produzione artistica e intellettuale, cioè, il valore dell’artigianato, come lo intendiamo adesso. Il problema è che di artigiani ce ne sono pochissimi. Ci sarà un diluvio universale che probabilmente spazzerà via la maggior parte e quelli che rimarranno, probabilmente, venderanno questo prodotto estremamente personale.

Ma guarda, speriamo.

Sì, da un certo punto di vista sì, ma dall’altro, chi sono i best-seller? Ci sono dei casi eccezionali, ma di solito chi vende tanto è chi scrive per il pubblico, non chi scrive per se stesso. Ci sono anche quelli che riescono a scrivere per se stessi e essere anche molto di successo, però, tendenzialmente non è così e, dunque, chi meglio di un’intelligenza artificiale per scrivere per gli altri, per il pubblico? La distanza aumenterà ancora di più. Ci saranno quelli che scriveranno, filmeranno, dipingeranno per se stessi, che saranno sempre più di nicchia, più autoriali e gli altri che saranno sempre più grandi, più popolari. E credo che sia quello il destino, che la disparità aumenti. Non so se è bene o male. Non so neanche se è la verità, se succederà questo.  
Una cosa che mi ha fatto molto ridere è che citavi Chat GPT. Dopo un tot di uso con gli utenti, è venuto fuori che Chat GPT si stava instupidendo, cioè che il contatto con noi la rendeva meno precisa, meno attenta, meno funzionale. Questa cosa, secondo me, è poesia pura.  

Impara da qualcuno che è imperfetto ad essere imperfetto.

Impara le cose e impara anche i difetti. L’idea è che abbiam davanti una macchina guidata da ChatGPT che al verde non parte subito. 

È come se ci fosse la tendenza a diventare tutti molto bravi, però tutti un po’ uguali, perdendo il contatto con quella comfort zone, di cui parlavamo prima.

Sì, perché i social hanno dettato delle regole che valgono per tutti. Cioè: la bravura è quella lì e ha quei due o tre riferimenti.

Da attacco di panico direi… Ma sei sicuro che la responsabilità sia solo dei social?

Ho un carissimo amico con cui collaboro, che fa delle illustrazioni, è bravissimo. Ed è diventato famoso perché fa le illustrazioni dei pittori, oppure di personaggi dello spettacolo ed ha avuto un enorme seguito, perché le illustrazioni sono molto belle, i soggetti sono riconoscibili. E lui fa questo. Ma quando parlo con lui, scopro che nella sua testa ha zombie, morti, splatter.

E li disegna?

Ha provato! Ma non hanno avuto successo come gli altri, perché il suo pubblico è abituato a un altro tipo di contenuto: le cose più soft, poetiche, dolci. Ma se tu hai dentro anche quell’anima lì, è difficile censurarti. Camilleri ha scritto Montalbano per tutta la sua vita; Conan Doyle ha dovuto resuscitare Sherlock Holmes, perché altrimenti gli bruciavano casa. E quindi ti ritrovi schiavo del tuo personaggio. Io ho scritto un libro, che è quello di cui vado più fiero, che ha un titolo assolutamente improbabile: si chiama “Piove per esigenze di trama”. È un libro che prende in giro i due generi che io amo molto, che sono il giallo e il fantasy. Sono due generi che io ho sempre letto molto, ma che odio profondamente perché sono pieni di cliché, di luoghi comuni. Il fantasy non riesce mai a chiudere una storia in un libro, ce ne vogliono sempre cinque e il giallo ha tutti questi insopportabili ispettori regionali, che hanno sempre qualche tipo di strana fisima e devono tutti essere fatti con lo stampino. Il protagonista di “Piove per esigenze di trama” è un elfo, un elfo fantasy, alla Legolas, che sta nel fantasy e fa il fantasy e non ne può più. Vede un anello e gli viene un attacco di panico. E allora lui non ne può più e a un certo punto evade. Evade dal suo libro e dal suo autore con un enorme sforzo fisico. Riesce a uscire e si ritrova in questa città dove convivono persone e personaggi. I personaggi sono molto riconoscibili perché le persone falliscono, sbagliano; i personaggi, quando falliscono, è a scopo di trama. Lui diventa commissario di polizia, diventa “Commissario Elfo”, e il suo obiettivo nella vita diventa quello di non finire mai più sotto una trama, mai più sotto autore, e perciò fa tutto quello che gli è possibile per essere anti-narrativo, per essere noioso, banale, per essere scontato, per non dare un appiglio a un autore che magari un giorno lo vuole tirar su con l’amo. Perciò fa tutte quelle cose che i personaggi non fanno nei libri. Per esempio: Elfo parcheggia, però parcheggia facendo tutte le manovre: sta lì, si prende il suo tempo, nessuno nei libri descrive nei dettagli un parcheggio! Oppure scende le scale gradino per gradino; nei libri si scendono le scale e basta. Cioè, il montaggio narrativo per lui non esiste. Ed ovviamente lui poi finisce dentro ad una trama. E mi piaceva l’idea di un personaggio che combatte controcorrente il suo stesso autore per cercare di non stare dentro a tutti i cliché. È il romanzo più profondamente autobiografico che ho scritto.

Nicolò, è stato davvero un piacere conoscerti ed aver passato del tempo con te. Grazie per aver condiviso generosamente la tua esperienza di vita e di scrittore. 

 

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